“Pubalgia”: una conoscenza degli sportivi.

“Pubalgia”: una conoscenza degli sportivi. Il dolore al pube negli atleti è un dolore molto diffuso e che spesso persiste per lungo tempo senza avere una risoluzione. Spesso il dolore viene attribuito in modo “superficiale” a un problema degli adduttori nella loro inserzione sul pube e viene trattato con terapie riabilitative fisiche senza avere risoluzione del problema. Ciò è dovuto al fatto che le cause possono essere molteplici. Il dolore può derivare da problemi muscolari, tendiniti, nevriti, infiammazioni di borse, infezioni, fratture traumatiche o da stress, lacerazioni di fasce addominali , ernie inguinali, patologie ginecologiche (ad es. endometriosi) e patologie dell’articolazione dell’anca (tra cui, come accade spesso negli sportivi, l’anca a scatto e la borsite trocanterica). Si indica ,talvolta ,come pubalgia un problema che invece è di origine inguinale Nei giovani atleti, ma anche nei giovani non atleti, un dolore inguinale può essere attribuito ad una malattia definita come ‘conflitto femoro acetabolare’. Essa è una patologia dell’anca dovuta alla non perfetta congruenza del femore e del bacino. La porzione di bacino che si articola con il femore, chiamata acetabolo, ha una forma concava simile a una tazza o una coppa e la testa del femore ha una conformazione sferica . Quando il femore o l’acetabolo modificano la loro forma si genera un attrito fra i due e questi genera il conflitto femoro acetabolare. L’ anomala congruenza può portare , nel tempo, a una lesione della cartilagine che evolve in artrosi. Il ‘conflitto femoro acetabolare’ può essere trattato e risolto tramite artroscopia, un intervento mini invasivo che va a rimodellare la testa del femore o a modificare il cotile attraverso dei fori. Gli sportivi che nella loro pratica utilizzano l’articolazione dell’anca in tutti i piani, tipo calciatori, giocatori di pallanuoto, ginnasti e ballerini dovrebbero prima di iniziare il gesto atletico eseguire esercizi graduali di allungamento dei muscoli che avvolgono l’articolazione quali i glutei, gli adduttori, i flessori e gli extrarotatori.

Artrosi: muoviti prima che sia troppo tardi

Artrosi: muoviti prima che sia troppo tardi È una delle cause più comuni di dolori e la causa principale di assunzione di antidolorifici: sto parlando dell’artrosi. L’ artrosi è una malattia degenerativa che interessa le articolazioni. Colpisce circa il 10% della popolazione adulta in generale e il 50% delle persone oltre i 60 anni di età. Protagonista principale dell’artrosi è la cartilagine articolare, cioè il tessuto che ricopre le estremità delle nostre ossa e che le sostiene. In particolare la cartilagine è un tessuto “scivoloso” ed elastico interposto fra le ossa che compongono l’articolazione: fa scorrere le ossa le une sulle altre e assorbe i traumi legati al movimento. Se la cartilagine si deteriora o si consuma… iniziano i dolori! Le cause del consumo della cartilagine sono molteplici. Il primo fattore è genetico. I geni che ci sono stati trasmessi dai nostri genitori, e che a loro volta hanno ricevuto dai loro genitori, regolano un nostro “orologio biologico” che induce le cellule condrociti della cartilagine a morire e a non sostituire il tessuto che si deteriora. Atre cause di degenerazione della cartilagine sono il fumo, il sovrappeso, le patologie dismetaboliche (ad esempio la gotta), la condrocalcinosi e il diabete, le problematiche reumatiche e autoimmunitarie ed infine i traumi . Tra le cause dell’artrosi possiamo sicuramente eliminare alcune credenze popolari come il freddo, l’umidità e il rimanere a lungo nell’acqua. Ma perché si fa fatica a muoversi? Capita che quando la cartilagine inizia a degenerare il nostro corpo metta in atto un “sistema di autodifesa “ che tende a bloccare l’articolazione e produce gli osteofiti, cioè delle ‘punte’ (che si possono vedere nelle radiografie) attorno alle articolazioni. La prevenzione nell’artosi è data principalmente da un corretto stile di vita. Seguire una dieta equilibrata che eviti un eccesso di carboidrati e proteine, il cui esubero può provocare un deposito sotto-forma di cristalli nelle articolazioni (e questi danneggiano le cartilagini). Controllare il peso in modo da evitare carichi eccessivi. Condurre attività sportiva costante, ma non esagerata. Non intraprendere uno sport senza una corretta preparazione e senza una valutazione degli effetti che quel tipo di sport comporta nel nostro corpo. Non possiamo purtroppo intervenire sui geni, ma possiamo agire quando sono presenti dismorfismi (come, ad esempio, eccessivo varismo o valgismo del ginocchio). Quando il danno cartilagineo è presente, è possibile sottoporsi a una tecnica di recente introduzione che al momento ha solo riscontri clinici e consiste nell’innesto di cellule mesenchimali (o impropiamente chiamate staminali nel gergo comune). La procedura consiste nel prelievo tramite lipo-suzione di cellule mesenchimali che una volta preparate vengono reintrodotte nell’articolazione danneggiata. Altre tecniche utilizzate per la rigenerazione della cartilagine sono l’utilizzo di “patch- toppe” di diversi materiali che vanno a coprire e sostituire il tessuto danneggiato. Allo stato attuale, non ci sono farmaci o “toppe” che rigenerino la cartilagine; le “toppe sopra menzionate” generano infatti un tessuto cicatriziale simile alla cartilagine. Quando il danno è avanzato, dobbiamo ricorrere all’utilizzo di protesi che hanno la funzione di sostituirsi alla cartilagine e rivestire l’osso. Oltre alle più note protesi per anca e ginocchio, esistono protesi per le spalle, per il gomito, per le caviglie, per i polsi e per le dita. Quando con il paziente decidiamo di porre una protesi eseguo l’intervento in ortoscopia (in particolare per anca e ginocchio), cioè con una tecnica che essendo poco invasiva nel corpo del paziente ne permette un recupero sia più rapido che con minore dolore. Gli accessi chirurgici moderni per l’anca e per il ginocchio mi permettono di non danneggiare i muscoli e il robot è di supporto nel porre molta più attenzione del passato sui legamenti e sulla tensione dei muscoli.

Protesi all’anca: un veloce pit stop.

Protesi all’anca: un veloce pit stop. La protesi all’anca è uno degli interventi più frequenti in ortopedia. Vediamo di capirne il motivo. L’anca riveste un ruolo fondamentale nell’atto del camminare e del mantenimento della nostra postura. È un’articolazione sottoposta a continue sollecitazioni sia nell’atto del muovere le gambe che in quello di stare fermi in posizione eretta. Quando sopraggiungono situazioni che vanno a modificare il corretto funzionamento del movimento dell’anca cambia il nostro modo di comportarci e quando in particolare la situazione di difficoltà aumenta fino a procurare dolore, tale dolore ci spinge a chiedere l’intervento del medico. Quali sono le cause principali di malfunzionamento dell’articolazione che portano a considerare una protesi? Possiamo descriverne principalmente quattro: l’artrosi primaria (una predisposizione genetica nella degenerazione delle articolazioni di tutto il corpo) l’artrosi in conseguenza a traumi/incidenti (ad esempio causata da una caduta o da un incidente stradale) la displasia dell’anca (una predisposizione genetica allo sviluppo anomalo dell’articolazione dell’anca) la necrosi della testa del femore (una particolare condizione di mancato afflusso di sangue nel tessuto osseo, che ne causa la morte; quando colpisce la testa del femore, viene compromessa tutta l’articolazione dell’anca). I pazienti con necrosi della testa del femore spesso lamentano un dolore al carico e alla deambulazione all’inguine e tendono a mantenere una posizione ‘obbligata’ dell’arto (flesso ed extraruotato). Una nota: la coxalgia (il dolore all’anca) può talvolta provenire da altre sedi, come ad esempio dai dolori addominali causati dall’endometriosi oppure da dolori delle sacro iliache. Quando il paziente lamenta un dolore inguinale che persiste anche dopo l’assunzione di antidolorifici e dopo il trattamento tramite fisioterapia o infiltrazioni, quando ha difficoltà a infilarsi le calze e le scarpe, quando ha difficoltà ad accavallare le gambe, insomma quando il paziente giunge ad una situazione di difficoltà e di dolore nella conduzione della propria giornata, si propone l’intervento di protesi all’anca. Il primo esame da fare quando si sospetta una problematica all’anca è la radiografia standard del bacino e dell’anca. Poi, da fare solo quando si sospetta la necrosi della testa del femore, è utile esaminare ulteriormente la zona con una risonanza magnetica. Una volta posta la diagnosi clinica e radiografica, la soluzione all’artrosi dell’anca è il trattamento protesico. La protesi di anca consiste nel sostituire la testa del femore e la coppa del bacino con una nuova “sfera” e una nuova “coppa”. Ogni paziente potrà giovarsi di una tipologia di protesi diversa a seconda dell’età e del tipo di attività lavorativa e sportiva che pratica. Ad esempio, pazienti che hanno bisogno di ampio movimento e che eseguono attività prettamente traumatiche possono giovarsi di protesi con teste grandi e con caratteristiche elastiche adeguate. Negli ultimi anni la grande differenza nel rapido recupero della deambulazione dopo l’intervento protesico è stata data dall’accesso chirurgico durante l’operazione. L’ accesso chirurgico mini-invasivo, anche se è corretto pensare e associare visivamente tale tecnica a un’incisione chirurgica di dimensioni minori rispetto alle tecniche del passato, consente una maggiore salvaguarda dei muscoli. L’accesso anteriore che pratico di routine mi permette di posizionare una protesi passando attraverso i piani muscolari, non danneggiandoli. Anche le perdite ematiche sono molto limitate e la trasfusione di sangue è rara: un altro vantaggio. I pazienti possono rimettersi in piedi il giorno dopo l’intervento e iniziare a camminare in modo assistito. Con tale approccio e una corretta riabilitazione si è in grado di abbandonare le stampelle già alla terza settimana. Un ulteriore evoluzione di questa tecnica mini-invasiva è l’approccio chirurgico cutaneo “bikini”, che si differenzia dalla tecnica standard nell’incisione cutanea e consente di far scomparire nella piega inguinale la cicatrice, una volta guarita. Tale approccio non è applicabile ad ogni paziente, in quanto vanno valutati peso corporeo e condizioni della cute. Recentemente ho associato l’accesso mini-invasivo alla robotica. La robotica permette di posizionare la protesi in modo da ridurre le variabili che solitamente si incontrano nel posizionamento di una protesi dell’anca. Tale tecnica è da riservarsi in paziente selezionati. Dopo l’intervento di protesi di anca i pazienti devono vere alcune accortezze tipo evitare di ruotare sull’arto operato e utilizzare delle sedute rialzate per il water e per il bidet per i primi 3 mesi.

Se alzare il gomito è doloroso: l’epicondilite

Se alzare il gomito è doloroso: l’epicondilite L’epicondilite o il meglio conosciuto “gomito del tennista” non è un problema che colpisce solo i tennisti. È un dolore localizzato alla faccia laterale del gomito, spesso irradiato fino alla mano, ed è causato dalla ripetitività quotidiana, per lunghi periodi di tempo, di determinati movimenti. L’epicondilite colpisce pertanto gli sportivi e coloro che per lavoro utilizzano avvitatori o strumenti a percussione o strumenti vibranti (come martelli e trapani) sottoponendo il muscolo ad uno sforzo eccessivo. Chi ne è colpito riferisce di una difficoltà nell’estendere il polso e le dita, finanche all’impossibilità di sollevare pesi, anche se di lieve entità come una bottiglia o una tazza (sensazione di debolezza del braccio). La causa principale di questo dolore è l’infiammazione dei tendini estensori nella loro inserzione al gomito (tendinopatia inserzionale). Più precisamente, il dolore ha origine dall’inserzione dei muscoli epicondilei sull’epicondilo, una sporgenza dell’estremità inferiore esterna dell’omero. Nelle prime fasi si tratta semplicemente di un’infiammazione e va trattata con il riposo e con uso topico di una crema antidolorifica; nel caso in cui nel tempo il dolore e l’infiammazione diventino cronici si può arrivare al caso più grave, ossia una rottura degli stessi tendini. Figurativamente parlando, è come se il tendine al suo stato inziale fosse un tessuto soffice come il velluto e si trasformasse in cuoio duro e anelastico a causa di sollecitazioni croniche prolungate nel tempo. E da qui la rottura. Talvolta tuttavia l’epicondilite è solo la punta dell’iceberg e l’origine del dolore è più estesa. Il dolore al gomito, sia esso gomito del tennista o artrosi del gomito, può infatti essere la manifestazione di un problema alla cervicale. Ecco perciò che è importante una corretta diagnosi clinica da parte del medico. Solo in un secondo tempo e se necessario si richiederanno esami quali una radiografia del gomito e un’ecografia. Quando si sospetta di avere un’epicondilite, la prima cosa da fare è sospendere temporaneamente l’attività che l’ha provocata e iniziare a fare più volte al giorno degli esercizi di allungamento degli estensori. Se ciò non basta si può ricorrere agli antiinfiammatori, che vanno assunti in modo sistematico (non a spot e una tantum!) per ottenere dei risultati. Una breve terapia e un dosaggio corretto sono migliori di una lunga terapia seguita in modo saltuario. Talvolta si può usare un bracciale per epicondilite (e chi frequenta i campi da tennis ne ha sicuramente visti): deve essere posizionato in modo corretto, cioè in modo da ‘scaricare’ i tendini dal gomito. Se la terapia conservativa non funziona è consigliabile rivolgersi allo specialista. Questi prima vi consiglierà delle terapie fisiche (le più indicate sono le onde d’urto) poi eventuali iniezioni. Ci sono due tipi di iniezioni a seconda del tipo di gravità riscontrata: con corticosteroidi (massimo 2) se si tratta una fase acuta; con plasma ricco di piastrine (PRP) se si tratta una fase cronica. Nei casi più gravi si giunge a consigliare l’intervento chirurgico, con cui si va a cruentare ed asportare la zona degenerata del tendine. Questo tipo di operazione può essere effettuata sia tramite artroscopia che a cielo aperto. L’operazione a cielo aperto è indicata quando all’asportazione è necessario associare la neurolisi nel nervo interosseo posteriore.

Aiutati che l’ortopedico ti aiuta

Aiutati che l’ortopedico ti aiuta E’ vero che il nostro corpo è in grado di ripararsi da solo? Quanto c’è di vero nella frase ‘mi curo con le mie forze’? Pensiamoci un secondo insieme. Tutti nella vita ci siamo sbucciati un gomito o un ginocchio cadendo, e questo è guarito senza particolari interventi da parte nostra. Tutti ci siamo procurati un taglio più o meno profondo, e questo una volta disinfettato e tenuto pulito si è riparato da solo. Ma cosa succede esattamente quando ci tagliamo? E’ esperienza comune un forte sanguinamento con fuoriuscita di globuli rossi e piastrine. Dopo un po’ il sanguinamento si ferma, perché i vasi vicino alla ferita si restringono per effetto dei fattori di coagulazione e delle piastrine. I fattori di coagulazione inviano messaggi (citochine e altre sostanze) che richiamano i fibroblati sul punto del taglio affinchè inizi il processo di riparazione. Dopo alcuni giorni la ferita si è riparata. Il nostro corpo si è riparato. Il processo di guarigione è noto da molto tempo, ma è invece di recente intuizione l’uso delle proprietà delle piastrine e delle loro peculiarità per specifiche patologie ortopediche, in particolare le patologie degenerative ortopediche (lesioni cartilaginee, artrosi precoce del ginocchio, patologie tendinee). Negli ultimi anni la ricerca medica è riuscita a sviluppare un metodo che consiste nel prelevare, concentrare ed attivare delle piastrine così da poterle iniettare nei tessuti in cui ci sia una lesione. Tale procedura si chiama ‘iniezioni di PRP’ (Platelet-Rich Plasma o plasma ricco di piastrine). Per eseguirla si inizia con un prelievo di sangue al paziente a cui poi si farà il trattamento. Il sangue prelevato viene quindi centrifugato più volte e concentrato fino ad ottenere il PRP del paziente. Una volta pronto (circa 10 minuti dopo il primo prelievo) il PRP viene iniettato nella zona lesionata. Si riduce l’infiammazione perciò si riduce il dolore, e migliora anche la funzionalità dell’articolazione. La fascia di età in cui il trattamento risulta più efficace è quella che va dai 40 ai 70 anni, perché le piastrine sono più efficienti e lavorano meglio. Non ci sono grandi limitazioni all’uso di plasma arricchito: non bisogna essere affetti da gravi patologie come malattie del sangue, tumori, e malattie infiammatorie sistemiche come l’artrite reumatoide. Sono delle controindicazioni anche lo stato di gravidanza e l’allattamento. Quando consigliare questa tecnica? Dopo visita ortopedica e dopo che si sono adottate terapie conservative (diminuzione del peso, utilizzo di farmaci analgesici, riposo dell’articolazione, terapie strumentali ed esercizi specifici, ma anche terapie a base di cortisone o di acido ialuronico): se queste non funzionano, e prima del ricorso alla chirurgia, è opportuno valutare con il paziente l’utilizzo di questa tecnica. In particolare con chi ha problemi di tendiniti (gomito del tennista, problemi al tendine di achille, trocanteriti, dita a scatto, …), a chi soffre di forme di artrosi in fase iniziale oppure a chi ha problemi nella guarigione ossea.

Come uscire  dal “tunnel carpale”

Come uscire dal “tunnel carpale” Il tunnel carpale è la compressione del nervo mediano al polso. Il sintomo tipico è il dolore notturno del polso, dolore che talvolta può salire fino al gomito e alla spalla. Tipicamente vi si associa il formicolio delle dita della mano, escluso il mignolo, e colpisce entrambe le mani. Sono le donne ad essere prevalentemente soggette al tunnel carpale. Statisticamente si riscontra un incremento di incidenza nel periodo premenopausale o in coincidenza di squilibri ormonali. Talvolta il tunnel carpale è legato a una attività lavorativa ripetitiva e all’utilizzo di strumenti vibranti (come ad esempio trapani o frese ) oppure ad utilizzo di tastiere o di mouse. Quando è possibile dire di essere affetti da tunnel carpale? La diagnosi è data dai sintomi e dall’esame clinico correlato all’elettromiografia. Tuttavia, importanti dolori notturni e formicolio non sia associano a un’altrettanto positiva elettromiografia. Se i sintomi sono lievi e l’elettromiografia risulta in fase iniziale, si può trattare il dolore con l’assunzione di integratori a base di vitamina b e di neurotrofici e con l’uso di tutori specifici. “La ricetta della nonna” suggerisce di fare esercizi di allungamento dei tendini flessori del polso. Talvolta ci si può sotoporre una infiltrazione al polso una procedura semplice e non dolorosa. Quando i sintomi sono severi il trattamento è chirurgico. L’intervento viene fatto in anestesia locale e dura circa 10 minuti. Il paziente dopo l’intervento deve muovere immediatamente le dita e per 20 giorni deve prestare particolare attenzione a non battere sul palmo o a fare attività che vanno a premere sul palmo (ad esempio lo stirare). Alcuni pazienti presentano dolore al palmo anche dopo 30 giorni dall’intervento, ma è una problema transitorio.

L’anca “schiocca”

L’anca “schiocca” QUANDO SCATTARE NON è SINONIMO DI SCATTANTE È una strana sensazione quella di camminare e sentire uno scricchiolio o uno schiocco, udibile anche da altri, ad ogni passo. Un rumore che l’anca può produrre anche quando ci si alza dalla sedia o si ruota il bacino. Ecco, questa è l’anca a scatto. L’anca a scatto è spesso il risultato di un’aumentata tensione dei muscoli e dei tendini che circondano l’anca. Normalmente sono le persone che praticano sport e attività che richiedono il continuo piegamento a livello dell’anca ad essere più soggette a questo ‘scatto’. I ballerini, ad esempio, sono particolarmente predisposti. Oppure i giovani atleti, perché durante la crescita è comune che si verifichi un’aumentata tensione delle strutture legamentose e muscolari e nello sportivo questo si aggiunge allo sforzo dell’allenamento. L’anca a scatto può verificarsi in diverse aree dell’anca, ed esattamente in ogni punto in cui i tendini e i muscoli scivolano sopra le sporgenze ossee. Il sito più comune dove si verifica questo problema è il lato esterno dell’anca, dove la ‘bandelletta ileotibiale’ (detta anche Fascia Lata) passa sopra la porzione del femore nota come il grande trocantere. Quando l’anca è diritta, la bandelletta ileotibiale è dietro il trocantere. Quando l’anca ruota, la bandelletta passa sopra il trocantere in modo che sia di fronte ad esso. La bandellatta ileotibiale è sempre tesa, come un elastico. Poichè il trocantere sporge leggermente, il movimento della bandelletta sopra di esso crea lo schiocco che si avverte quando si soffre di questo problema. All’inizio questa sensazione può essere indolore e creare solo qualche perplessità nel movimento (temendo di attirare l’attenzione altrui con i propri scatti), ma con il tempo gli scatti ripetuti possono portare alla borsite dell’anca, che è dolorosa. La borsite è l’ispessimento e l’infiammazione della borsa, un sacco pieno di liquido che permette al muscolo di muoversi agevolmente sull’osso. Va da sé che il movimento risulti doloroso quando la borsa dovesse alterare il proprio stato. In rari casi, inoltre, il persistere degli scatti e quindi dei contatti ripetuti tra la bandelletta ileotibiale ed il grande trocantere può portare a lesioni e calcificazioni dolorose dei tendini glutei (che si inseriscono proprio sul grande trocantere). Come dicevo, durante la fase indolore si tende a soprassedere sui sintomi. La maggior parte delle persone non va da un medico per un’anca a scatto a meno che non avverta dolore. Se soffri di anca a scatto e l’anca ti dà fastidio, ma non fino al punto da dover consultare un medico, prova questi trattamenti a casa: Riduci i livelli di attività e applica ghiaccio sulla zona dolorante. Usa farmaci anti-infiammatori non steroidei, come Ketoprofene o Ibuprofene per ridurre il dolore e l’infiammazione. Modifica le attività sportive o gli esercizi per evitare movimenti ripetitivi dell’anca. Ad esempio, riduci il tempo speso su una bicicletta o nuota utilizzando solo le braccia.   Quando è il caso di valutare un trattamento chirurgico? Nei rari casi in cui l’anca a scatto non risponda al trattamento conservativo fatto a casa, il medico può proporvi un intervento chirurgico e il tipo di chirurgia dipende dalla causa che ha determinato l’anca a scatto. Quando ci sono le condizioni per intervenire, predispongo per il paziente un intervento in artroscopia. Durante l’artroscopia dell’anca, inserisco una piccola telecamera, chiamato artroscopio, nella zona laterale dell’anca. La fotocamera visualizza le immagini su uno schermo televisivo e questo permette di usare queste immagini per guidare strumenti chirurgici miniaturizzati. Poiché gli strumenti artroscopici e chirurgici sono molto sottili, si esegue tutto l’intervento solo attraverso delle piccolissime incisioni della pelle (invece che tramite la più grande incisione caratteristica della chirurgia standard aperta). Per l’anca a scatto generalmente bastano due o tre piccoli tagli di circa 1 centimetro e l’intervento consiste nel procurare una piccola apertura nella bandelletta ileotibiale per far sì che non urti più sul grande trocantere. Poi si rimuove la borsa infiammata e, se presenti, si procede riparando le lacerazioni tendinee.

Bikini: la cicatrice che scompare

Bikini: la cicatrice che scompare Quando si sente parlare di Bikini il pensiero vola subito a una spiaggia assolata con ragazze che si esibiscono a prendere il sole in costume a due pezzi. In ortopedia invece il termine bikini fa riferimento a un tipo di accesso chirurgico mini-invasivo per l’operazione all’anca.Il nome deriva proprio dall’idea di poter operare un paziente di protesi d’anca attraverso una cicatrice che possa scomparire sotto il costume. Negli ultimi anni alla chirurgia tradizionale è andata via via sostituendosi la chirurgia mini-invasiva, una modalità di intervento che fa uso di piccole dissezioni del tessuto nelle quali vengono inseriti, con delle sonde, gli strumenti necessari all’intervento. L’obiettivo di questa procedura è quello di contenere i traumi a cui il paziente è sottoposto e agevolare un veloce decorso post operatorio. La ricerca per una sempre minore invasività chirurgica (tissues sparing surgery o risparmio dei tessuti) ha sviluppato in particolare le tecniche chirurgiche rivolte alle nostre strutture del movimento e della deambulazione. Nello specifico, l’accesso chirurgico bikini è un’evoluzione dell’accesso anteriore mini-invasivo all’anca; da questo si differenzia solo per il tipo di taglio tissutale, in quanto non è un semplice taglio verticale ma è invece un taglio effettuato lungo la piega inguinale e permette di arrivare all’anca ‘aprendo i muscoli’ ed evitando il distacco dei tendini. Nessun trauma muscolare. E’ una tecnica complessa ma dall’indiscutibile risultato.Ha i vantaggi dell’accesso anteriore (vengono risparmiati i muscoli permettendo al paziente una rapida ripresa e una scarsa perdita ematica) e la cicatrice una volta guarita scompare.La sua applicabilità va valutata in relazione al paziente, in quanto vanno valutati le sue caratteristiche morfologiche, peso corporeo, condizioni della cute e il tipo di alterazione che colpisce l’anca. Non tutte le patologie sono correggibili attraverso questa via chirurgica: la sicurezza e l’appropriatezza dell’intervento non devono mai essere sacrificate da una via chirurgica che non permette al chirurgo di muoversi con precisione. Ho utilizzato l’accesso anteriore bikini anche durante i periodi di volontariato in Africa per eseguire correzioni di bacino nei bambini: tale procedura permette infatti di operare con una buona visibilità delle colonne del bacino.E’ triste dover costatare come recentemente in Italia alcuni fatti di cronaca e intercettazioni abbiano reso negativamente famoso l’accesso bichini, facendo passare in secondo piano quelli che sono i reali benefici della conoscenza e dell’applicazione di questa procedura da parte di medici esperti. Innanzitutto, ‘chi mi opera dottore’? La risposta sembra scontata, ma per molti pazienti il dubbio sorge, perciò ecco la risposta: sono io. ‘Dove mi opera? C’è da pagare?’ Opero in due cliniche private convenzionate con il SSN, perciò per l’operazione è necessario farsi fare l’impegnativa dal proprio medico di base, ma non si deve sostenere l’intero costo dell’operazione, proprio come negli ospedali pubblici. In alternativa, se si è in possesso di un’assicurazione sanitaria, la parte economica può essere coperta dall’assicurazione secondo i termini  del proprio contratto. “Che tipo di protesi mi mette?… perché un mio amico ha sentito che ora ci sono quelle anallergiche” Premesso che ci sono molte tipologie di protesi, sia per materiali che per forma, tutte le protesi che utilizzo sono in titanio e ceramica. La forma e la misura della protesi la scelgo basandomi sulle informazioni che ottengo dagli esami diagnostici (RM, Raggi X o TAC) e dagli altri medici che fanno parte dell’equipe (anestesista e protesista). Altra cosa di cui teniamo conto è la gestione di medicinali, patologie preesistenti e allergie dei pazienti, importante per la preparazione e per il post operatorio: tutto viene coordinato passo dopo passo. Opero inserendo la protesi dell’anca per via anteriore e avvalendomi del sistema robotizzato (solo a Verona) o del sistema navigato. “‘Sono indeciso/a, non so cosa fare, come faccio a farle sapere qualcosa?” Può prendersi tutto il tempo necessario per decidere e quando ha qualcosa da comunicarmi può telefonare direttamente alla mia segretaria, che è già informata. ‘Quanto tempo dovrò assentarmi dal lavoro e quanto dura la riabilitazione?’ Premesso che dipende da paziente a paziente, e dal tipo di lavoro che si interrompe per potersi operare, la riabilitazione per una protesi d’anca effettuata per via anteriore è più veloce di quanto ci si aspetti. La prima cosa da fare quando si decide di operarsi è chiamare o scrivere alla mia segretaria, che conseguentemente prenderà nota dei dati e inserirà il paziente in lista d’attesa, fornendo tutte le informazioni e la documentazione per procedere.

Un caffè amaro

Un caffè amaro Uganda la perla d’Africa. Uganda terra del caffe, del te, dei grandi laghi africani. Ogni anno svolgo attività di volontariato come chirurgo ortopedico presso il CORSU Hospital in Uganda. Il servizio di riabilitazione nasce con l’intento di risolvere o migliorare la disabilità di bambini che hanno problemi e deformità dalla nascita o che hanno problemi a causa di banali traumi degenerati in qualcosa di grave per colpa di infezioni o complicazioni. Ogni anno, quando è il momento di ripartire e tornare a casa, provo una sensazione di amarezza, perché sento di aver fatto poco per questi bambini e perché penso a quelli che non sono riuscito ad operare. Ogni volta mi lascio alle spalle storie, visi e persone e spero di aver aiutato qualcuno a risolvere la propria disabilità e a migliorare la propria vita. L’idea alla base del CORSU Hospital è questa: gli interventi ortopedici sono costosi, ma solo gli adulti pagano. In pratica le spese sostenute dagli adulti costituiscono un fondo per i più piccoli: gli adulti finanziano completamente gli interventi per i bambini. La ricerca di fondi è fondamentale per migliorare le condizioni e la strumentazione dell’ospedale, e 5 anni fa fu una donazione giapponese a permetterci di avere una macchina per l’artroscopia: un’evoluzione che ci permette di operare al meglio sportivi locali o occidentali, pazienti paganti che a loro volta sostengono le cure per eseguire interventi sui bambini. Tuttavia, molto spesso anche gli adulti non possono permettersi un intervento chirurgico e sono costretti a vendere i loro pochi averi, arrivando all’operazione solo quando è strettamente necessario. VI racconto la storia di una signora che ho incontrato proprio prima di partire per l’aeroporto. Maria ha 35 anni, 3 bambini e possiede un pezzettino di terra lasciatole dal marito, purtroppo mancato. Lei coltiva il suo terreno e zappa quello di altri per pochi soldi. Questo fino al 2015, quando purtroppo fu investita da un’auto e si ruppe un femore e un braccio. Non si operò subito perché non aveva abbastanza soldi; dopo 8 mesi riuscì a vendere il proprio pezzettino di terra e con i soldi ricavati riuscì a pagare l’intervento (2000 dollari circa) in un ospedale della periferia. Il medico che la operò non è un ortopedico ma un chirurgo e fece quello che riuscì. L’intervento non è andato bene: il giovedì in cui stavo per ripartire si è presentata in ospedale con un grave problema al braccio e al femore. A causa dell’inabilità Maria per due anni non ha potuto lavorare e guadagnare, non ha più il suo piccolo terreno e ha speso tutti i soldi che aveva per operarsi: ora non ha modo di mantenere i figli. Ho lasciato Maria alle cure di un mio collega ortopedico locale che sto formando, in attesa di raccogliere i fondi per operarla. Ho lasciato l’ospedale con il cuore gonfio di tristezza. Questa è una delle tante amarezze che lascio in Uganda.

Il pollice non si oppone: la rizoartrosi

Il pollice non si oppone: la rizoartrosi La rizoartrosi è un dolore alla base del pollice che rende difficile o impossibile la presa. I pazienti affetti da rizoartrosi lamentano dolore nell’impugnare le cose, nel sollevare una tazzina, nel girare la chiave nella toppa e limitazione in tutte le attività dove sia implicata l’opposizione del pollice. E’ un tipo di artrosi che colpisce prevalentemente le donne e i primi sintomi compaiono generalmente intorno ai 40 anni. Si tratta di una forma di artrosi, quindi di un processo degenerativo, che colpisce l’articolazione fra il metacarpo e il trapezio. Da cosa è causata la rizoartrosi? Le cause sono multi fattoriali. In primis c’è una predisposizione genetica. A questa si associa una maggiore lassità dell’articolazione (caratteristica prevalente nelle donne, anche per altre articolazioni) insieme ad una maggiore inclinazione della superficie articolare del trapezio (visivamente, immaginate di ruotare il pollice mantenendo ferma la mano: risulta chiaro che più ampio è il ‘cono’ che un dito riesce a fare, maggiore sarà l’uso della cartilagine). Un altro fattore di rischio è il lavoro. Mi riferisco soprattutto a quelle professioni in cui si deve utilizzare molto il pollice in posizioni di pressione e opposizione. Un ulteriore fattore di rischio, va da se, sono gli eventuali eventi traumatici al pollice o alla mano. La diagnosi è clinica e si effettua a seguito di una semplice radiografia. Al fine di ridurre il dolore in chi è affetto da rizoartrosi, si consiglia in primo luogo un trattamento di tipo conservativo, con l’utilizzo di un tutore che può essere portato sia di notte che di giorno (si valuta insieme). Nei momenti di dolore acuto il paziente può ricorrere a degli antidolorifici, ma si consiglia di prevenirlo o gestirlo tramite cure fisioterapiche. Quando tutto questo non risolve il problema, si può decidere di ricorrere all’intervento chirurgico. Ci sono molti tipi di intervento che si possono fare e sono tutti accomunati dal fatto che si procede con l’asportazione del trapezio e la sua sostituzione, con una protesi o con un tendine. Talvolta il trapezio viene solo tolto, senza essere sostituito. Io pratico una tecnica che consiste nel sostituire il trapezio con un tendine, solitamente con una parte del flessore radiale del capo. Dopo l’intervento il paziente dovrà portare un tutore per 25 gg; dopo la rimozione del tutore dovrà iniziare la fisioterapia. Il tempo necessario a percepire una mano funzionale, in grado cioè di creare una forza di opposizione col pollice, è di circa 6 mesi dopo l’intervento.

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